Seppellire i caduti nelle fosse comuni
È una delle pratiche più diffuse nelle guerre che hanno insanguinato il nostro tempo; è così anche nel conflitto in cui si fronteggiano Ucraina e Russia.
Articolo pubblicato su SOCREM News 1/2023
di Giovanni De Luna
Le macabre discariche che affollavano campi di battaglia della guerra civile spagnola (1936-1939) suggerirono a George Bernanos questa amara osservazione: “La guerra di Spagna è una fossa comune. La fossa comune dove imputridiscono i principi veri e quelli falsi, le intenzioni buone e quelle cattive”. Lo scempio si replicò nei regimi totalitari, nella Russia di Stalin (le cave di Butova o la necropoli di Bykovna dove furono seppelliti 200 mila ucraini) e nelle stragi dei nazisti, segnate dal ricorrente tentativo di cancellare ogni traccia della morte delle vittime con esecuzioni quasi clandestine che colpivano prigionieri, deportati, donne e uomini razziati dai reparti della Wermacht nei villaggi e nelle città europee.
Ovunque il messaggio era diretto ai sopravvissuti: seppellendoli nelle fosse comuni o di notte, anonimamente, in luoghi remoti, si voleva dimostrare di essere capaci di annullare fisicamente i nemici fino a farli svanire nel nulla.
Più in generale, sono state soprattutto le guerre che si sono accese tra la fine del Novecento e questo inizio di secolo ad aver eletto le fosse comuni a loro macabro emblema. In un viaggio nell’orrore di quei siti di morte ci si imbatte così in Sabra e Chatila (Libano 1982), nell’ Iraq delle due “guerre del golfo” e della repressione contro i curdi, nella strage di Srebenica (ex Jugoslavia, 1992) e poi, citando alla rinfusa, il Congo, la Colombia, la Cecenia, il Kosovo, la Costa d’Avorio, il Darfur, la Somalia, l’Afghanistan rimbalzando così in ogni parte del mondo. Di fatto, ovunque i prigionieri non identificati, i combattenti uccisi sul campo di battaglia e un numero incalcolabile di civili (secondo quanto è stato denunciato a suo tempo dall’Agenzia centrale delle ricerche della Croce Rossa Internazionale) sono stati sepolti nelle fosse comuni così che un loro censimento equivale a compilare una lista in cui figurano tutte le guerre della nostra più stretta contemporaneità.
Ma perché questa pratica è così diffusa. Rappresenta in qualche modo un aspetto fisiologico della guerra? No, perché anche in tempo di pace, le dittature di Stalin e Hitler, quelle dei militari nell’Argentina dei desaparecidos e nel Cile di Pinochet, hanno usato le fosse comuni per cancellare dalla faccia della terra i loro avversari politici. Ma allora se non sono quelle della guerra, quali sono le pulsioni che si agitano dietro quel sistematico annientamento dei corpi?
Si tratta in realtà di infliggere al nemico una doppia morte: la prima ne spegne la vita, la seconda, cancellandone il corpo, tenta di uccidere anche il suo ricordo.
Precipitando il nemico nell’anonimato della fossa comune si rende impossibile l’elaborazione del lutto per quelli che lo piangono. Senza una tomba su cui raccogliersi, senza un cimitero in cui abbandonarsi al dolore della perdita, i morti abbandonati e cancellati chiedono a vivi di restituirgli il rispetto e la dignità. I sopravvissuti non hanno la possibilità di farlo e questo li sprofonda in una sofferente precarietà, in una terra di nessuno in cui i morti non riescono a separarsi dai vivi e viceversa. Una lapide, una tomba, un cimitero sono i segni che questa separazione è avvenuta. La fossa comune serve a negarla.