La vita, la morte, il nulla
La pandemia ha fatto registrare una più accentuata intensità del dibattito pubblico sul fine vita.
Ma è il caso di chiederci se tutto questo ha fatto aumentare anche la nostra consapevolezza sulle questioni ultime dell’ esistenza
di Maurizio Assalto
“Biotestamento. Scegli adesso. Adesso che puoi”. Su quotidiani e settimanali lo sguardo fermo e autorevole di un giornalista famoso sovrasta il claim della Vidas, Volontari Italiani Domiciliari per l’Assistenza ai Sofferenti. Le ultime settimane del 2021 erano state occupate dalla dolorosa vicenda di “Mario”, il tetraplegico marchigiano immobilizzato da dieci anni, a cui le lentezze del Parlamento precludono la via del suicidio assistito (già autorizzato nella sua regione dal Comitato etico dell’Azienda sanitaria). E i mesi precedenti erano stati scanditi, nelle piazze e sugli organi di informazione, dalla marcia incalzante del referendum per l’eutanasia legale, che in sei mesi ha raccolto l’adesione entusiastica di 1,2 milioni di italiani (in pratica uno su 50) e sulla cui ammissibilità è atteso per metà febbraio il pronunciamento della Corte Costituzionale.
Non si è mai parlato tanto di “fine vita”: ossia, sollevando il velo dell’eufemismo, di morte. Un tempo tabuizzata – e tuttora tabù nella realtà quotidiana, dove il morente viene per lo più preso in carico da tutta una catena operativa che ha lo scopo di gestirne gli ultimi istanti isolandolo dal contesto dei viventi – la morte “vive” una concomitante contraddittoria popolarità su un piano squisitamente teorico, oggetto di una “battaglia di civiltà” che dall’ambito delle idee sconfina in quello dell’ideologia. E sarà (è) certo animato da nobili intenti chi si arruola nella pugna, consacrandovi tempo e risorse, ma, se ci si riflette, non può non lasciare un minimo disorientati il fatto che sorgano associazioni che esistono (vivono) per occuparsi di ciò che è l’opposto della vita. Un paradosso, legato alla tragicità intrinseca della situazione umana.
Vivere-per-la-morte è secondo Heidegger la condizione per una esistenza autentica, in quanto pervasa dall’angoscia che apre alla consapevolezza della finitudine: è armato di questa consapevolezza che l’uomo si sottrae alla naturale inclinazione a disperdersi nell’inautenticità (ciò che il filosofo chiamava “deiezione”) e incontra il proprio poter-essere-nel-mondo, realizzandosi nel mondo. Ma siamo sicuri che il tanto parlare di morte, in questi mesi, a causa anche della tragedia pandemica, corrisponda alla consapevolezza esistenziale postulata da Heidegger?
Da un punto di vista biologico la morte è banalmente la cessazione delle funzioni vitali – respiro, battito cardiaco, attività cerebrale. Dal punto di vista ontologico la cosa è un po’ più complessa.
Quando per le cause più svariate alcune delle principali funzioni vitali sono compromesse, e magari all’origine di sofferenze devastanti, è comprensibile il desiderio di porre fine a una vita che – biologicamente – ha perso senso. #liberifinoallafine è l’hashtag dell’Associazione pro eutanasia Luca Coscioni: una libertà molto relativa, in verità, perché disgraziatamente al genere umano non è dato scegliere se, ma solo eventualmente come e quando inevitabilmente morire. In casi disperati può essere un’opportunità, ma un’opportunità che si propone, appunto, sul piano dell’esistenza intesa come bios, dove vigono considerazioni molto concrete, molto pragmatiche (in termini heideggeriani, le considerazioni circolanti nel territorio dell’inautenticità). A questo proposito si potrebbe proporre il paragone con un elettrodomestico che, quando si guasta e non si può riparare, viene gettato e sostituito con un altro. Ma una vita umana, un individuo, quando finisce, non può essere sostituito. Dopo di lui ci saranno altri individui, ma lui precisamente lui, nella sua irripetibile unicità, non ci sarà più. E questo ci pone di fronte all’abisso metafisico, il mostro senza nome che le diverse religioni hanno cercato variamente di addomesticare.
Non essere più, essere nulla, il nulla, è diverso, più radicale, più vertiginoso della morte. La morte abbiamo la possibilità di gestirla, di procrastinarla o anche volontariamente accelerarla, come nel caso del suicidio assistito: è qualche cosa con cui siamo in grado di venire a patti. Ma il nulla?
Possiamo renderci conto della differenza con un esempio: chi perde la vita per un incidente, per una malattia o semplicemente perché ha raggiunto i limiti di età, si può effettivamente dire che muore, lascia un corpo morto che per qualche tempo perdura e di cui comunque qualche cosa rimane; ma di chi, poniamo, è investito da un’esplosione nucleare, è polverizzato in un istante e di lui non resta nemmeno l’ombra su un muro, come pure è accaduto nel 1945 a Hiroshima, si può dire propriamente che è morto? Le sue funzioni vitali non hanno smesso di funzionare, è tutto il suo essere che da un momento all’altro è svanito, ha cessare di esistere. È passato dall’essere qualche cosa al non essere. Che cosa è questo non essere? Che cosa (chi) sono io nel nulla? È questo l’interrogativo che può togliere, ma se problematizzato può anche heideggerianamente conferire senso all’esistenza, al tratto di tempo che ci è dato di trascorrere nell’essere, a quel che facciamo in questo tratto di tempo prezioso perché irripetibile. Volerlo abbreviare, in una situazione disperata, è forse la soluzione più umanamente comprensibile, ma è anche un modo di eludere il problema.