Riti spontanei per i morti di Covid
Durante la pandemia è venuta meno la possibilità di accompagnare la morte con riti che fino a pochi mesi prima avremmo definito “normali”. L’assenza di questa ritualità ha lasciato un vuoto profondo e, in molti contesti, ha spinto le persone a interrogarsi su come trasformare emozioni e memorie in gesti, oggetti e simboli. Casalpusterlengo (Lodi), Londra e New Jersey sono esempi di manifestazioni spontanee di commemorazione, che gradualmente hanno acquisito un carattere di permanenza e testimoniano l’importanza, individuale e collettiva, della ritualità.
di Sabina Spada, antropologa
Casalpusterlengo, provincia di Lodi, primavera 2020. Nel luogo dove si trovava l’antico nucleo del paese, in particolare la prima chiesa con il suo cimitero, si vanno accumulando centinaia di sassi, provenienti dal greto del vicino Po, ciascuno dedicato a un defunto e personalizzato con il suo nome e la data di morte, avvenuta per Covid.
A dare il via a questa raccolta è il presidente di un’associazione culturale locale che si occupa della valorizzazione di luoghi storici e monumenti, Ottorino Buttarelli, il quale ha intercettato un’esigenza fondamentale che attraversa la vita delle persone e della collettività in un momento storico tanto particolare quanto quello segnato dalla pandemia di Covid-19.
Si tratta dell’esigenza di convogliare in un gesto, in un oggetto tangibile il terribile dolore per la perdita di un proprio caro, dolore reso ancora più intollerabile dall’assenza di un corpo su cui piangere. Sono infatti i giorni in cui spesso i malati muoiono soli, in ospedale, lontano dai propri cari, nell’impossibilità di scambiare con loro un ultimo sguardo, e anche i funerali sono vietati dalle disposizioni per il contenimento della pandemia. Dopo qualche mese, il 21 agosto, il cumulo di sassi diventa ufficialmente un monumento alle vittime del Covid: trasformato in tronco dicono, la cui punta spezzata giace a terra, viene intitolato Sassi di memoria e comunanza e ancora oggi è il luogo dove portare il proprio sasso in ricordo di chi non c’è più.
Nello stesso periodo, un’analoga esperienza coinvolge le famiglie colpite da lutto a Londra,dove 150mila cuori rossi e rosa vengono disegnati su un muro lungo 500 metri che costeggia la sponda del Tamigi di fronte al Parlamento. Iniziato con pennarelli indelebili da un gruppo di familiari in lutto, il murale è arricchito nel corso dei mesi con i nomi delle sempre più numerose vittime, con dediche e ricordi. Anche in questo caso l’iniziale spontaneità del gesto diventa un monumento commemorativo, acquisendo un carattere di permanenza sancito dall’interesse delle istituzioni a trasformare quella sterminata sequenza di cuori in The National Covid Memorial Wall.
Un altro esempio: dal sasso con il nome di Rami Samman, lasciato da sua sorella sulla spiaggia di Belmar in New Jersey nel gennaio 2021, nasce un’installazione di ben dodici grandi cuori di conchiglie dipinte di giallo, ognuno dei quali racchiude centinaia di sassi dedicati dai familiari ad altrettante vittime del Covid. Anche qui, il desiderio di onorare la memoria dei propri cari, e di utilizzare un oggetto materiale per dare corpo al lutto, si trasforma in memoriale permanente, il Rami’s Heart Covid Memorial, presso la Allaire Community Farm, poco distante dalla spiaggia dove i cuori di sassi erano andati formandosi.
Perché è così importante, per chi ha perso una persona amata, ricorrere a un gesto così apparentemente banale come scrivere il suo nome su un muro o su un sasso? Come mai la pandemia ha fatto sì che azioni rituali del genere si moltiplicassero in tutto il mondo?
Per comprenderlo, è bene ricordare in primo luogo che non esiste cultura umana che non metta in atto pratiche rituali di commiato, le quali consentono il progressivo distacco della comunità dei vivi dai propri defunti e aiutano a lenire il dolore di chi resta, fornendo una rete di supporto nell’ambito della quale la sofferenza ottiene un riconoscimento sociale. Tutto questo non è stato possibile durante i giorni più difficili della pandemia, ma la necessità tutta umana di compiere riti intorno alla morte non è affatto venuta meno.
Il divieto di celebrare i funerali, in aggiunta all’indisponibilità dei corpi da cui gradualmente distaccarsi, ha fatto sì che l’insopprimibile bisogno di ritualizzazione prendesse nuove strade, assumesse forme inedite, ricorresse a pratiche inventate o riattualizzate. Ecco allora che scegliere un sasso, pulirlo, decorarlo, scriverci sopra il nome del proprio caro, portarlo in un luogo dove
ne sono stati depositati altri diventa un’alternativa al funerale negato, un rito che consente di dare consistenza a una serie di vissuti ed emozioni, anche quando non c’è un corpo da cui accomiatarsi. Normalmente, infatti, è in presenza di un corpo che si possono celebrare i riti del commiato ed è a partire da quella stessa presenza che prende avvio l’accettazione della morte.
La funzione terapeutica del gesto ritualizzato intorno al sasso e la capacità dell’oggetto materiale di favorire il lavoro del lutto sono ben spiegate da chi ha partecipato in prima persona, con la propria azione, a costruire il monumento collettivo di Casalpusterlengo. Mattia Cantarelli, la cui madre è morta in una casa di riposo a ottantanove anni, racconta: “L’ho scelto, lavato con cura, come se fosse una cosa preziosa. Di solito scrivo male, ma il nome di mia mamma su quel sasso l’ho scritto bene. Quando ho lasciato la sua pietra insieme alle altre, quella è stata la prima volta che ho veramente pianto per la scomparsa di mia mamma, è stato come se le avessi fatto il funerale. Do più importanza a questo monumento che alla lapide che c’è al cimitero” (testimonianza raccolta da Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2020).
I luoghi e gli oggetti scelti per compiere tali riti costituiscono una sorta di santuari spontanei, e assomigliano in certo modo agli accumuli di fiori, candele, peluche, biglietti, palloncini, oggetti di vario genere, spontaneamente posizionati come omaggio a personaggi famosi morti prematuramente, da lady Diana a Jim Morrison, a Michael Jackson, o alle vittime di eventi devastanti per la comunità, come nel caso degli attentati dell’11 settembre 2001 o di quello di Nizza del 14 luglio 2016.
Non soltanto luoghi di memoria, questi santuari spontanei diventano meta di pellegrinaggio e hanno un ruolo attivo nel percorso di accettazione del dolore, di elaborazione del lutto. Per chi lo fa, depositare un sasso è un po’ come accendere una candela in chiesa, un gesto sacro che potrebbe rappresentare una soglia simbolica: un’azione che consente di iniziare a uscire dalla fase di torpore per mettere in moto la capacità di reagire.